sabato 17 agosto 2013

Mary Queen of Scots, Shu jia zuo ye, Real - Locarno66

-Mary Queen of Scots di Thomas Imbach
Concorso Internazionale

Thomas Imbach, che proprio a Locarno esordì con il suo primo lungometraggio, torna al Festival per presentare il suo primo film in lingua inglese: Mary Queen of Scots, libero adattamento della biografia di Stefan Zweig.
Mary Stuart (Camille Rutherford, già vista in Il treno per il Darjeeling), regina di Scozia a soli sei anni, viene inviata in Francia per essere educata alla corte di Caterina de' Medici. Appena adolescente sposa il legittimo erede al trono francese diventando anche la futura regina di Francia, ma il ragazzo muore in un incidente di caccia e Mary è costretta a fare ritorno in Scozia, un regno devastato dalla guerra sull'orlo di un nuovo conflitto contro l'Inghilterra protestante.
Biografie di personaggi femminili e film in costume sono quasi sempre un'accoppiata vincente, e quasi sempre generano un numero più o meno grande di cloni perfettamente anonimi. La differenza in questi casi la fa l'occhio del regista, e Thomas Imbach a fare qualcosa di diverso ci prova, a partire dalla scelta del personaggio in questione, Maria Stuarda, una figura storica forse meno ovvia e soprattutto meno sfruttata dal mondo del cinema, al contrario per esempio della sua "nemesi" Elisabetta I. E proprio su questa scelta Imbach riesce a costruire un film leggermente meno convenzionale, in cui la regalità diventa quasi una claustrofobica prigione intorno ai personaggi, un mondo irreparabilmente grigio che si chiude intorno a Mary molto prima della sua vera prigionia durata diciannove anni.
La Scozia offre quindi lo sfondo perfetto per ospitare questa sorta di purgatorio in terra, una distesa dura e inospitale dominata soltanto dalla natura selvaggia e da qualche isolato castello, residenze spartane lontanissime da quelle dell'iconografia classica dei film in costume, quasi delle spettrali rovine infestate dalle sagome nere dei nobili cattolici.
Più horror che film in costume, Mary Queen of Scots racconta l'inevitabile destino della sua protagonista soprattutto attraverso le immagini, quelle di un mondo dove la luce non penetra mai, esattamente come non compare mai il personaggio di Elisabetta, l'eterna assente, destinataria di centinaia di lettere che non incontrano mai risposta. Peccato per una narrazione troppo sterile e convenzionale, appesantita da una certa frammentarietà.

-Shu jia zuo ye (A time in Quchi) di Tso-chi Chang
Concorso Internazionale

Il taiwanese Tso-chi Chiang, già collaboratore di Hou Hsiao-hsien e Tsui Hark, dirige e produce una delicata storia di amicizia ambientata nella periferia di Taipei: nella pausa alla fine del semestre scolastico, il piccolo Bao viene inviato a Quchi, in aperta campagna, per trascorrere le vacanze in compagnia del nonno rimasto vedovo. Trascurato dai genitori, Bao è diventato autonomo quanto asociale, perennemente imbronciato e scontroso con tutti, ma l'amore del nonno e la gente di Quchi riusciranno a infrangere la corazza.
Shu jia zuo ye è uno di quei piccoli film che riescono a riportare un po' di sana semplicità tra i tanti film ambiziosi di un Festival, un racconto di formazione dalla struttura piuttosto classica raccontato con un taglio molto realistico, ai limiti del documentaristico, con una macchina da presa che si limita a spiare nel modo più statico possibile i momenti quotidiani di una piccola comunità, immortalando anche eventi "fuori copione" come una terribile inondazione.
Semplice ma non banale, perché Tso-chi Chiang lascia parlare le immagini in modo intelligente, senza sottolineare gli sviluppi della storia con inutili didascalismi. Molto bella per esempio tutta la sequenza iniziale in cui Bao viene accompagnato in macchina a casa del nonno, un viaggio lungo e silenzioso in cui il bambino e l'autista si limitano a qualche scambio di sguardi. Viene naturale pensare che l'uomo sia un taxista, ma subito dopo scopriamo che è il padre di Bao.
Una bella storia che funziona soprattutto grazie alle interpretazioni, quella sopra le righe del nonno e quella di Bao, che, come ha giustamente sottolineato Carlo Chatrian, "regge sulle sue spalle piccole ma forti un intero film".


-Real di Kiyoshi Kurosawa
Concorso Internazionale

Ci voleva il giapponese Kiyoshi Kurosawa (Kairo, Cure, Tokyo Sonata) per portare il cinema di genere al Festival di Locarno, peccato che il risultato lasci molto a desiderare.
Un breve incipit ci mostra la vita di una classica coppietta felice. I due si giurano eterno amore, poi la scena si sposta avanti di un anno: lei, Atsumi, disegnatrice di manga ossessionata dalle scadenze, è finita in coma dopo un tentativo di suicidio, lui, Koichi, tenta di risvegliarla attraverso il "sensing" una terapia che permette di entrare nel subconscio di un altro (Paprika, The Cell, Inception...). La terapia sembra avere successo, ma man mano che Koichi si spinge oltre nella mente di Atsumi, delle strane allucinazioni cominciano a tormentarlo nella realtà.
I viaggi all'interno della psiche o del sogno sono sempre una premessa estremamente intrigante, soprattutto quando l'elemento fantascientifico è un semplice pretesto per parlare di altro sfruttando il più possibile l'ambientazione surreale. Real sembra voler imboccare questa direzione, ma Kurosawa (regista e sceneggiatore) non è per niente sicuro del fatto suo, e infatti tutto il primo tempo galleggia a metà tra i toni di un thriller psicologico e quelli di un horror di bassa lega, con entità varie che ogni tanto fanno capolino da qualche lato dell'inquadratura. Poi nel secondo tempo si passa dal thriller al dramma psicologico e la situazione precipita irrimediabilmente, Kurosawa comincia ad indugiare senza pietà su una serie di colpi di scena telefonatissimi e la trama procede ad un ritmo esasperante verso la più prevedibile delle conclusioni, tra brutali forzature, una computer grafica scadente e una serie di finti finali infilati uno dietro l'altro per prolungare l'agonia.
Uno dei peggiori film del Festival, noioso, poco originale e criminalmente piatto da ogni punto di vista.

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