mercoledì 31 ottobre 2012

Moonrise Kingdom di Wes Anderson

Nelle sale italiane dal 5 dicembre 2012.

Estate 1965, New Penzance, ridente isola del New England senza strade asfaltate, durante una rappresentazione teatrale scoppia l'amore a prima vista tra Sam e Suzy, due ragazzini di 12 anni. Lei è figlia di due avvocati che gestiscono la famiglia come se vigesse un regime militare, Lui è un orfano “parcheggiato” da genitori adottivi poco amorevoli in un campo scout dove non gode di nessuna popolarità a causa dei suoi “strani” atteggiamenti. Decidono allora di scappare insieme, gettando nel caos l'intera comunità della piccola isola e scatenando una “caccia all'uomo” dai risvolti tragicomici.
Wes Anderson torna al cinema live action dopo la felicissima parentesi in animazione a passo-uno, ovvero la più grande burla che potesse tirare all'orda di critici che lo accusavano di essere scaduto nell'autoreferenzialismo dopo soli 3 film, o se preferite di girare sempre lo stesso film senza nessuno slancio creativo: nonostante qualche maligno avesse addirittura ipotizzato che il regista si fosse materializzato sul set sporadicamente durante la lavorazione del film, Fantastic Mr Fox è stato comunque un successo straordinario, un vero e proprio plebiscito di consensi, ma pur sempre “l'ennesimo film di Wes Anderson”.
Sia chiaro, chi scrive adora il cineasta americano e non ha registrato nessuno dei presunti passi falsi denunciati da altri, nemmeno il tanto vituperato Le Avventure Acquatiche di Steve Zissou o il controverso Il Treno per il Darjeeling (il mio preferito n.d.r.), ma non comprende chi a suo tempo parlò di “freschezza” riguardo la pellicola in questione: stessi douchebag (o personaggi strambi che dir si voglia), stessa famiglia disfunzionale, stessa fotografia dalle tonalità ocra, stesse carrellate, stesse inquadrature plongeè, stessi dialoghi stravaganti, stesse scenografie vintage, stessi tempi narrativi... Bastano pupazzi pelosi al posto di attori in carne ed ossa a rendere un film originale rispetto al resto della filmografia di un autore rigidamente ancorato al suo modus di fare cinema? O semplicemente brucia troppo ammettere che in passato si è esagerato nel definire "bollito" uno dei migliori cineasti del panorama odierno e di conseguenza ci si sente legittimati a usare parole a sproposito?
Bon, tolto qualche sassolino dalla scarpa, veniamo a questo Moonrise Kingdom: presentato in concorso come film d'apertura al 65° festival del cinema di Cannes, la nuova pellicola di Anderson ha riscosso consensi pressochè unanimi bissando il successo della precedente opera.
E' il film che convincerà anche i più ostinati detrattori dell'autore?
Difficile dirlo, apparentemente a un occhio distratto potrebbe sembrare il “solito Anderson”, specie sul piano formale in quanto pieno di tutti quegli elementi poco sopra elencati. Tuttavia è evidente il cambio di cifra stilistica nei momenti di intimità tra i due giovani innamorati. Moonrise Kingdom è una storia di ribellione giovanile e in quanto tale fortemente metaforica: se nei momenti “familiari” regnano le rigide carrellate e la telecamera fissa, dopo la fuga dei piccoli protagonisti lo sguardo del regista si fa più dolce, più libero e meno attento alla composizione, claustrofobico, con primi piani in netta contrapposizione alle inquadrature che sembrano voler sfruttare appieno la scenografia, tipiche di Anderson.
Il vero punto di forza sono Sam e Suzy, anche per merito delle performance dei due giovani attori, rispettivamente Jared Gilman e Kara Hayward: se si tratta di bellissimo cinema dell'infanzia è grazie sopratutto all'alchimia venutasi a creare tra i due adolescenti, alle genuine e un po' goffe effusioni che si scambiano, ai momenti di commovente tenerezza, alle stranezze che li contraddistinguono e che li rendono “diversi” agli occhi degli altri. Sarebbe però ingiusto non citare i personaggi adulti, parlare di douchebag in questo caso diventa un gentile eufemismo: i “grandi” di Moonrise Kingdom sono dei perfetti imbecilli che, illusi di fare del bene, non fanno altro che commettere errori su errori che inevitabilmente si ripercuotono sull'innocente prole; idioti ancorati al loro modo di vedere il mondo che reprimono emozioni e che rimpiangono scelte passate. Ma fortunatamente l'epifania c'è e si traduce in toccanti scene: su tutte il momento in cui i personaggi interpretati da Bruce Willis e Edward Norton prendono coscienza del triste destino che aspetta l'orfano in fuga e il finale squisitamente Nietzschiano.
Il giudizio è pienamente positivo, non sarà il film che farà ricredere chi pensa che il cinema di Wes Anderson sia giunto al capolinea già da parecchio tempo, ma se avete apprezzato Fantastic Mr- Fox un'eventuale bocciatura dovrebbe farvi considerare l'ipotesi di fare pace col cervello.
Se invece amate l'autore, acquistate pure a scatola chiusa.  

Filmbuster(d)s - Speciale Horror

Primo speciale tematico del podcast di cinema "che migliore non ce n'è". Onorate una festa (Halloween) estranea alla nostra cultura ascoltandoci e seguendo i nostri consigli per una serata da brivido.

[00:14:40]The Possession

[00:23:00]Rec 3 - Genesis
[00:40:45]V/H/S
[01:01:00]Consigli









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lunedì 29 ottobre 2012

Il bianco e il nero #20: Il cinema sonoro sotto la pioggia

-E' una trovata che non dura.
-Anche dell'automobile si disse così.
Dialogo sul cinema sonoro, Cantando sotto la pioggia.

Cantando sotto la pioggia non è solo, probabilmente (non amo troppo le classifiche), il miglior musical cinematografico di tutti i tempi, ma è anche una significativa lezione di storia del cinema americano.
Tra un numero musicale e l'altro racconta di un importante periodo di cambiamento all'interno dell'industria cinematografica a stelle e striscie e quindi mondiale. Il film, del 1952, quindi auguri per i 60 anni portati benissimo, racconta delle vicende di una coppia di amici,  un attore e un compositore, a cui si aggiunge poi una donna, sulla cresta dell'onda proprio quando il loro lavoro subirà una modifica epocale. Siamo nel 1927 e da poco è stato inventato il sonoro.
Volevo, se riesco, usare il film per parlare di quell'epoca e far notare tutte i piccoli riferimenti e citazione che Donen e gli sceneggiatori hanno disseminato qua e là. E poi perchè no, regalare qualche chicca del making of, dal tiranno Gene Kelly ai piedi sanguinanti di Debbie Reynolds.

Partiamo dall'inizio. Nella prima scena siamo alla prima del nuovo film dei due divi del momento Lina Lamont (Jean Hagen) e Don Lockwood (Gene Kelly), Canaglia reale (The Royal Rascal), presentato come la miglior pellicola del 1927. Come era consuetudine ai tempi, si preparava non una serata qualsiasi, ma un vero evento epocale. Tappeto rosso, l'intero Hollywood Boulevard chiuso al traffico e transennato, migliaia di fans adoranti, aerei in cielo con striscioni, altoparlanti e riflettori che illuminavano tutto a giorno. A Hollywood un film veniva presentato così. Certo ancora oggi per film importanti, in grandi città, si organizzano prime di un certo livello, ma ormai il cinema ha perso quell'attrattiva che aveva più di 80 anni fà. Dopotutto è ormai grandicello e consumato.
Ai tempi, sede della proiezione era il mitico Grauman's Chinese Theatre. Questo edificio particolarissimo, l'esterno è modellato sulla forma di una pagoda cinese e l'entrata è sorvegliata dal rilievo di un dragone e due statue di cani tipiche dell'architettura della dinastia Ming, merita che si sprechi un paio di righe a riguardo.
Deve la sua nascita a un altro particolare cinema, il Grauman's Egyptian Theatre, chiaramente questo ispirato all'epoca egizia, inaugurato nel 1922. I lavori per il collega cinese iniziarono nel 1926 e vide la luce un anno dopo, il 18 maggio 1927, per la premiere del nuovo film di Cecil B. DeMille Il re dei re. 
Grauman commissionò il lavoro su uno dei suoi terreni, il 6925 di Hollywood Blvd., alla società di architetti meyer and Holler. L'architetto sarebbe stato Raymond M. Kennedy, già autore dell'Egyptian. Partner finanziari di Grauman erano gli amici Mary Pickford e Douglas Fairbanks (due colossi del cinema muto, creatori, insieme a Charlie Chaplin della United Artists).
Proprio mentre si lavorava con malta, mattoni e cemento il nuovo teatro, nacque per puro caso uno dei simboli di Hollywood, proprio li davanti, la celeberrima Walk of Fame, ovvero le impronte dei più famosi attori impresse nel cemento fresco con la propria firma. La leggenda vuole che Norma Talmadge, un'attrice del cinema muto famosa ai tempi, oggi sconosciuta, sia finita con le scarpe dentro al cemento fresco, da li nacque l'idea di farlo fare a tutti i più grandi. Nel 1937 però Grauman disse che fu lui il primo a finirci dentro per caso e da lì gli venne l'idea. Chiamò quindi Mary Pickford, poi la Talmadge e come terzo Fairbanks. Le loro impronte sono ancora visibili oggi.
Dal 1944 al 1946 ospitò la cerimonia della consegna degli Oscar (adesso e quasi sempre al Kodak Theatre) Nel 1967 il teatro venne dichiarato monumento nazionale. Ancora oggi alcune premiere si svolgono qui, ma come detto, anche se c'è ancora molta folla, molte celebrità, molti flash, non ha più il fascino di un tempo.

domenica 28 ottobre 2012

Io e Te di Bernardo Bertolucci

Nelle sale dal 25 ottobre.
Lorenzo è un ragazzino di 14 anni molto introverso e schivo. Uno psicologo, da cui realmente va, lo definirebbe uno con il sè grandioso, una sorta di snob che non considera gli altri al suo livello. Le uniche persone con cui è affettuoso e espansivo sono i suoi genitori e la nonna morente. Quando a scuola viene organizzata la classica settimana bianca, Lorenzo, non integrato con i compagni, decide di tenersi i soldi datigli dalla mamma per organizzarsi una settimana leggermente diversa. Compra merendine, bibite e succhi di frutta per sette giorni, sceglie due o tre libri dell'orrore e compra una ciabatta multipresa. Il giorno della partenza per la gita, lui si rintanerà nella cantina del suo condominio dove ha già organizzato tutto; la copia della chiave della porta, un letto con delle coperte e molte scuse da inventarsi quando la premurosa mammina avrebbe chiamato per sapere come va. Questo esiliovolontario e desiderato è ostacolato dall'arrivo di un ospite improvviso, la sorellastra Olivia, che non vedeva da quasi due anni e generalmente vista poco. Per vari motivi, diventa una settimana di convivenza.
Lorenzo fugge alla realtà perchè la ripudia. Anche quando deve rimanere forzatamente in classe o in gruppo, preferisce l'isolamento delle cuffie del lettore MP3 piuttosto che mescolarsi agli altri. Nelle sue fantasie c'è un'apocalisse dove rimane l'ultimo uomo rimasto sulla terra (oltre alla mamma, con cui, si, dovrebbe secondo lui, ripopolare la terra), quando decide di comprare un animaletto da compagnia sceglie un formicaio con i suoi abitanti ben inquadrati, in una vita compatta e strutturata con evidenti limiti spaziali.
Anche Olivia, di nove anni più vecchia, fugge dalla realtà. Lei però non usa un MP3 ma usa la cocaina e l'eroina. Da promettente fotografa è sprofondata in un mondo dove farebbe di tutto per una dose. Adesso l'evasione dalla realtà è per lei un obbligo e non un desiderio come per Lorenzo. La droga ha coronato quel suo sogno di diventare un muro, di fondersi con le pareti e diventare nulla, invisibile. Per entrambi quindi la cantina rappresenta una pausa dal mondo, una disintossicazione, vera o metaforica, per poi ripartire, forse, da un nuovo inizio.  
Bertolucci reinterpreta Ammaniti. A dieci anni dal suo ultimo film, The Dreamers, un'assenza dovuta alla malattia che l'ha colpito, il maestro italiano torna alla regia e all'Italia, da cui mancava dal 1981. E lo fa trasponendo un romanzo breve di uno dei migliori scrittori italiani del momento e uno dei più "portati" al cinema. Lo reinterpreta perchè, sorte che tocca a qualsiasi libro, lo ritocca ampiamente, migliorandolo a volte e peggiorandolo altre volte.
Tutta la prima parte è estranea al racconto di Ammaniti (inizia al presente e torna indietro di dieci anni, ai tempi della storia), così come sembra un estraneo lo stesso Lorenzo bertolucciano. Se per lo scrittore, il ragazzino è sempre avvolto in una bolla da cui non esce mai e poi mai, a parte per una partita di calcetto dove comunque preferisce fare il portiere, lontano dal gioco e dai compagni, per il regista, è estroverso in alcune occasioni, come quando importuna il commesso del negozio di animali. Risulta difficile quindi capire al meglio la psicologia e cosa c'è nella testolina di Lorenzo nel film, e così capire a pieno la sua scelta di chiudersi nella cantina. Insomma, è un analisi piuttosto frettolosa.
E per una volta non ci si può nascondere dietro a un libro che può permettersi più spazio e quindi più analisi introspettiva, perchè Ammaniti in poche pagine delle sole 100 totali del libro, traccia un profilo degno di uno psicologo esperto, mentre, piccolo esempio, Bertolucci si sbarazza di tutti i passaggi in cui viene sottolineato questo legame troppo attaccato di Lorenzo con la mamma, con un solo dialogo dove si accenna a un rapporto incestuoso, come detto prima. Il perchè di questa "pecca" si potrebbe rintracciare nell'altra figura su schermo, Olivia, la quale diventa la vera protagonista superando in volata il nostro Lorenzo.
Bertolucci, vicino ai giovani e alle figure femminili, predilige dare più spazio alla sorellastra tossicodipendente e ai suoi discorsi sulla vita piuttosto che allo schivo e taciturno ragazzino e questo nonostante lei rimanga su schermo molto poco rispetto al fratello.

La reclusione sembra essere un tema caro sia allo scrittore (il Filippo di Io non ho paura, rapito e segregato) che al regista, quasi sempre volontaria per il secondo (anche "i sognatori" del film precedente si isolavano da una società e un periodo storico che credevano di conoscere, e Ultimo tango a Parigi o L'Assedio) ma positiva, portatrice di speranza, come fosse un passaggio obbligatorio da attraversare. Ed è questo il miglior cambiamento apportato dal regista all'opera su carta, oltre a molte altre piccole cose (dalla vacanza tra amici a una vacanza di classe, la prima cosa che mi viene in mente).
In definitiva il nuovo film di Bertolucci sembra un racconto breve, un "piccolo" film, quasi una parentesi, ma un film che sentiva e voleva fare (addirittura in 3D all'inizio). Purtroppo non convince a pieno, ne chi ha già letto il libro ne chi entra nella cantina per la prima volta. Gli manca un approfondimento e un avvicinamento più marcato ai personaggi che doveva essere il pilastro fondamentale. Rimane tuttavia un buon film con un ottimo finale, un super comparto sonoro dove troneggia la bellissima Space Oddity di David Bowie riadattata in italiano da Mogol,  e due bravissimi interpreti (Jacopo Olmo Antinori e Tea Falco, entrambi al debutto) come punti forti, anche se la maggior parte dei pregi attribuibigli vanno inesorabilmente diretti ad Ammaniti.

sabato 27 ottobre 2012

The Possession di Ole Bornedal

Nelle sale dal 25 ottobre

Che caspita è un Dybbuk ? Chi bazzica un po' il genere horror ne saprà qualcosa, e magari suonerà qualche campanello anche a chi ha visto A Serious Man dei fratelli Coen. Per tutti gli altri: secondo la tradizione ebraica il Dybbuk è l'anima errante di un defunto a cui è stato impedito di entrare nell'aldilà e che quindi si rifugia nei corpi altrui. Insomma una forma di possessione demoniaca, e tanto per cambiare ci troviamo di fronte a un film sull'esorcismo. A produrlo è la Ghost House Picture di Sam Raimi (sigh...) mentre dietro la macchina da presa troviamo Ole Bornedal, regista danese alla sua seconda trasferta americana (aveva già diretto il remake del suo Il guardiano di notte).
Clyde (Jeffrey Dean Morgan) e Stephanie (Kyra Sedwick) hanno divorziato da poco. (non si scappa, le ragazzine possedute hanno sempre una famiglia disastrata). Lei si è già rifatta una vita con un nuovo compagno, lui cerca di rimettersi in piedi tra lavoro e una casa tutta nuova. Nei weekend Clyde si prende cura delle due figlie, e proprio durante una di queste uscite Em (Natasha Calis), la più piccola delle due, compra una strana scatola in legno coperta con incisioni in aramaico. Naturalmente la apre, liberando così un dybbuk prigioniero che si impadronisce del suo corpo e comincia a influenzare il suo comportamento.
E niente, praticamente è tutto qui, The Possession non potrebbe essere più tipico, insignificante e anonimo. Sia chiaro, non è un disastro completo, perché in fondo è diretto dignitosamente e non scade mai nel grossolano, però non si spinge un millimetro oltre, fa il minimo sindacale senza prendersi nemmeno un rischio. Forse l'unico problema in questo senso è che scorre anche troppo spedito, dopo il breve incipit infatti la possessione entra subito nella sua fase più critica, tanto che ci si chiede come facciano i personaggi a non accorgersi di quello che sta accadendo.
La storia è così tipica che più tipica non si può, il classico blocco narrativo collaudatissimo preso e messo in scena senza nessuna rifinitura, senza togliere o aggiungere qualcosa ad una formula ormai vecchia di 50 anni. E questa forse è la cosa più sconcertante, The Possession è il classico esempio di film realizzato con lo stampino, dai personaggi allo sfondo degli eventi, tutto rigorosamente monodimensionale e intercambiabile, con un bel "basato su una storia vera" in locandina tanto per non farsi mancare niente. E poi c'è quella che dovrebbe essere la novità, il dybbuk, l'elemento ebraico, un tentativo di variazione sul tema esorcismo. Ma magari! Come anticipavo nell'introduzione, il dybbuk qui è trattato esattamente come un demonio nella concezione cattolica del termine, spogliato di tutti i suoi tratti caratteristici e reso familiare e digeribile al grande pubblico, che evidentemente, per chi sta dietro a queste produzioni, è ormai completamente lobotomizzato e incapace di affrontare una realtà esotica come l'ebraismo chassidico. Niente di nuovo quindi, uno spirito che dovrebbe fare di tutto per rimanere celato non fa altro che dare prove della sua esistenza, e quindi via con sciami di insetti, cattiverie gratuite, autolesionismo e volti che compaiono deformati negli specchi o dietro qualche superficie trasparente. Anche da questo punto di vista non c'è niente da segnalare, le manifestazioni demoniache non sono altro che un compendio di quelle viste in decine di altri film analoghi, e i pochi guizzi di creatività non sono mai pienamente sfruttati, senza considerare che, secondo una pratica ormai consueta, le scene più significative sono già tutte nel trailer.



giovedì 25 ottobre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #15


L'incipit del commento su On the Road è esilarante, ve la butto lì così, diretta, perché sono quasi morto dalle risate riascoltandolo. Episodio 15 del podcast più mega ultra super del web, 5 film 5 di cui se ne salva uno, quello in copertina.
Si avvicina Halloween e stiamo preparando un episodio speciale dedicato al cinema horror, stay tuned.


Nel 15° episodio di Filmbuster(d)s:

[00:04:45]Total Recall
[00:15:00]Killer joe
[00:32:15]Taken 2
[00:45:00]Paranorman
[00:52:00]On the Road




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lunedì 22 ottobre 2012

Il bianco e il nero #19: Tanti auguri Mr. Bond

– Ammiro la sua fortuna, Mr...
– Bond, James Bond. 

Cinquant'anni e non sentirli, bè oddio, insomma. Ci sono voluti sei volti diversi, molti "lifting", ritocchini, tanti padri e tante epoche e mode alle quali sottostare. Ma il nostro agente segreto doppio zero, le ha vinte tutte. Perbacco!, persino la crisi economica che stava per bloccare il nuovo capitolo in uscita a novembre.
In occasione del compleanno della saga più famosa del mondo, ecco uno specialone sul primo film, Licenza di uccidere, con molte chicche sulla realizzazione, sulla nascita della gunbarrel scene, la musica tanto celebre dei titoli, la scelta del romanzo (non era il primo) le opinioni e le reazioni del padre e creatore di tutto ciò, Ian Fleming. E poi la prima Bond girl, il primo villain, e il primissimo Bond, che scommetto pochi conosceranno.


Scena prima dei titoli di testa:
Come ogni buon James Bond bisogna partire dall'anticamera, quella breve sequenza prima della "sigla" e del gunbarrell, che compare in ogni film (a parte il primo) e che chiude un caso precedente, portandoci a quello nuovo assegnato all'agente doppio-zero.
Siamo nel 1954 e sul canale americano CBS va in onda il telefilm Climax! composto da una serie di episodi da circa un ora trattanti vari temi ma sempre incentrati sull'azione, il pathos e la tensione. Questa sera va in onda un certo Casino Royale tratto dal best seller omonimo di Ian Fleming. Il libro fissa la nascita dell'agente più famoso della storia del cinema e non solo. Fleming lo aveva scritto un anno prima e aveva ottenuto un discreto successo tanto che già qualcuno a Hollywood voleva farci un film. Per ora riuscì a finire in un programmaccio poco seguito e prodotto dalla Crysler. 
Bianco e nero, dopo l'intro di un presentatore appare questo uomo di spalle mentre sale i gradini che portano all'entrata di un Grand Casino a Montecarlo. Qualcuno gli spara ripetutamente e lui si salva nascondendosi vicino a una colonna. Il concierge gli chiede se è stato colpito e lui risponde "No. Tutto d'un pezzo, ma non saprei dire come". Questa, e non la celeberrima, Bond, James Bond, è il primo vagito, la prima frase del Bond cinematografico-televisivo. Non proprio d'effetto.
Tutto l'episodio non entusiasma granchè. Eccezzion fatta per il cattivo, Le Chiffre, interpretato dal mitico Peter Lorre, il primo Casino Royale è di una piattezza sconcertante. Bond è interpetato dall'attore americano (l'unico e solo di questa nazionalità) Barry Nelson un signor nessuno. L'attore ricorda di aver accettato il ruolo solo perchè avrebbe recitato con Lorre, di cui era grande estimatore, ma il giorno delle rirpese era un fascio di nervi, tanto che Lorre nel climax finale gli disse "Smettila di tremare, non riesco a ucciderti!".
Niente ricorda gli elementi classici dei futuri Bond. Niente sigla, niente gunbarrell, niente viaggi per il mondo. Persino il drink è sbagliato. Nelson ordina uno scotch con acqua e non il famigerato Vodka Martini agitato, non mescolato. E poi povertà nelle scenografie, una sola Bond girl, un finale affrettato e poco altro.

L'episodio si rivelò un flop. Fleming la prese molto male perchè ci credeva molto nel personaggio, nella sua possibilità nel campo visivo e inoltre gli avevano più o meno promesso che sarebbe stato l'inizio di una serie TV tutta sua di 30 avventure. Tuttavia nel 1956 gli proposero di scrivere qualche episodio (e qui nacque Licenza di uccidere) ma poi il progetto venne abortito.
Addirittura la pellicola, unico modo di rivederlo, scomparve e venne ritrovata solo nel 1981. Poco prima della messa in onda venne anche tagliato grezzamente di qualche minuto per farlo rientrare nei tempi televisivi. Un fallimento totale che però portò ulteriore fama allo scrittore in terra americana, con la ristampa del libro, (con diverso titolo, non si sa mai, "Too hot too handle), e l'americanizzazione di alcuni idiomi, unico caso di modifica da parte di Fleming di una sua opera della saga Bond.
Dopotutto Casino Royale fruttò bene e la coda che si creò alla porta di Fleming (George Ratoff comprò i diritti per ben due volte, la prima scaddero mentre la seconda li comprò a vita. Morì nel 1960 e l'anno successivo la vedova li cedette a Charles K. Feldman, a dieci volte tanto, e riuscì a fare uscire il primo lungometraggio su Casino Royale, una parodia scanzonata nel 1967) faceva ben sperare per il futuro.

domenica 21 ottobre 2012

Cogan - Killing them softly di Andrew Dominik

Nelle sale dal 18 ottobre

Terzo film alla regia per Andrew Dominik, che dopo il notevole L'assassinio di Jesse James... si porta dietro un Brad Pitt barbuto e impomatato per adattare il terzo romanzo di George V. Higgins (Cogan's Trade, 1974) modificato quanto basta per inserirlo in un contesto più familiare e significativo, quello della sfida elettorale tra Barack Obama e John MacCain all'ombra di una crisi economica che non risparmia nemmeno il mondo del crimine organizzato (prima che scrittore Higgins è stato avvocato e assistente procuratore nel Massachussets). I romanzi di Higgins sono celebri (più in America che in Italia) per la mole impressionante di dialoghi frizzanti e realistici, tanto che secondo molti hanno influenzato l'inconfondibile stile cinematografico di Quentin Tarantino, e questo Killing them softly fa il possibile per rimanere fedele allo stile dell'opera di riferimento. Ma passiamo alla trama:
Frank (Scott McNairy) e Russell (Ben Mendelsohn), due delinquentelli strafatti e sprovveduti, si accordano con Lo Scoiattolo (Vincent Curatola, perché il cast dei Soprano alimenta il 90% dei crime movie) per rapinare una bisca clandestina ospitata da Markie Trattman (un sempre più gonfio Ray Liotta). L'idea geniale è far ricadere la responsabilità proprio su Markie, che già in passato aveva subito una rapina piuttosto sospetta.
Ma il mondo del crimine organizzato è sempre più simile al consiglio di amministrazione di una grande impresa, e una rapina ad una bisca rappresenta un enorme perdita di capitale, l'economia si ferma e gli investitori perdono fiducia nell'autorità, così i vertici mandano un avvocato (Richard Jenkins) ad assumere qualcuno che faccia pulizia, e visto che il solito assassino non è disponibile si rivolgono a Cogan, uomo con una morale tutta sua che subito annuncia abbastanza didascalicamente “preferisco ammazzarli dolcemente”.
Killing them softly per quanto mi riguarda parte col botto, subito ti mostra questi relitti umani pronti a lanciarsi in un'impresa rischiosissima con la massima leggerezza, calati in una periferia squallida quanto loro, immortalata con colori spenti, giallognoli e desaturati. Poi iniziano a parlare, divagano, si punzecchiano, fanno battutacce e un attimo dopo hanno già programmato tutta la rapina, e il riferimento a Tarantino di cui parlavo prima diventa subito chiaro, anche se nonostante l'ironia di fondo il tono qui mi sembra molto meno spensierato. Dopo arriva la rapina, tesa, rapida ma non frettolosa, c'è tutto il tempo di inquadrare i volti e i gesti di queste vittime che in realtà sono meno spaventate dei rapinatori, forse perché consapevoli che i due pazzi avranno vita breve, o forse perché sono semplicemente abituati a vedere di peggio. E il ritmo è appunto distesissimo, come lungo tutto il film, e va bene così, perché il lavoro di Cogan non è una caccia all'uomo serrata e senza regole, prima di tutto perché il sistema che gli sta dietro si muove a passo di lumaca, tutto deve essere votato e approvato dai vertici, e poi perché lui è metodico, preferisce non mostrarsi mai alle sue vittime, soprattutto a quelle che non conosce, e proprio per questo arriva addirittura a chiedere l'assistenza di un altro killer (James Gandolfini) solo per sistemare una vittima che lo ha già visto in faccia. Quella che doveva essere una risposta rapida ed efficace diventa una lunga pianificazione che dà tutto il tempo alle vittime di godersi il loro malloppo e allo spettatore di osservare questo bizzarro spaccato di vita. I problemi però iniziano proprio qui, perché questo stile così efficace e divertente sta in piedi su una struttura esilissima, e quando la tensione della prima parte svanisce rimangono solo un sacco di dialoghi sconclusionati e un pugno di personaggi che nella maggior parte dei casi sono tagliati con l'accetta. Il personaggio interpretato da Gandolfini è l'esempio perfetto, un assassino attempato che compare in scena solo per annunciare poco elegantemente che non riesce più a svolgere il suo sporco lavoro, perché è tanto depresso e il suo è un mondo tanto difficile. Oppure lo stesso Cogan, che con il suo cinismo un po' troppo posticcio se ne esce con delle frasi ad effetto schiaffate al momento giusto nel posto giusto, tanto per ridestare e conquistare quegli spettatori che si stavano appisolando. E' una conclusione di sicuro effetto certo, ma dopo tutti quei dialoghi più o meno realistici è strano sentire un personaggio così grezzo mettersi a sentenziare su politica, colonialismo e Thomas Jefferson. Ma questo è un problema che riguarda il film nel suo insieme, tutti i riferimenti al contemporaneo vengono semplicemente relegati a qualche linea di dialogo e messi da parte, tanto che il film funzionerebbe perfettamente anche in un contesto completamente diverso. Insomma hanno preso un romanzo degli anni '70 e hanno inserito il 2012 dove hanno trovato spazio.
E poi c'è questa regia insicura che sembra voler compensare la mancanza di ritmo con soluzioni esagerate ed esasperate, come quei cinque minuti di rallenty durante una delle esecuzioni, o quel montaggio frammentario e singhiozzante che ricorre molto spesso, soprattutto durante i deliri da eroina di Russell. Momenti di creatività che purtroppo capitano quasi sempre a sproposito e sembrano più che altro spunti catturati qua e la senza però che si sappia cosa farne veramente. Un'impressione che si riflette anche su tutto il resto, quando quegli scambi di battute così pungenti vengono esasperati a loro volta e si caricano di qualche volgarità di troppo.
Nulla da ridire sul cast invece, anche se per quanto mi riguarda spicca unicamente Ben Mendelsohn, non tanto perché funge da diversivo comico ma perché è di uno sgradevole davvero genuino, soprattutto nell'aspetto. Pitt invece non entusiasma, la sua forza sta tutta nel personaggio, lui si limita a fare i suoi sorrisetti, a grattarsi la fronte col pollice e a far roteare gli occhi.
Per concludere, buono ma non eccezionale, ha un po' il sapore di un'occasione mancata.

sabato 20 ottobre 2012

Cercasi amore per la fine del mondo di Lorene Scafaria

Nelle sale dal 17 gennaio.
Una delle tanti notti insonni di questa torrida estate appena passata, accesi la TV e mi misi a guardare un programma su ComingSoon, Cloud, contenitore di news, trailer e interviste. Proprio quella notte parlavano di questa commedia, appena uscita oltreoceano, e si vedeva Carell sperticarsi in lodi infinite per la verve e il talento comico di Keira Knightley. Bene, interessante, e con un titolo così accattivante, me lo sono segnato da qualche parte.
Mancano tre settimane alla fine del mondo. Persino l'ultimo tentativo (una navicella canadese) di fermare l'asteroide Mathilda, diretta sulla terra, è andato a vuoto. Non c'è più nulla da fare se non aspettare.
Doug (Carell) apprende la notizia in macchina, con la moglie Linda. La sua unica reazione è un commento banale sull'uscita sbagliata presa in autostrada. Linda fugge via. Non ne può più di lui o semplicemente non può resistere e convivere le ultime tre settimane della sua vita con uno così. Perchè per Doug, che finisca il mondo, non è poi una tragedia. Tipo mollaccione, prudente, noioso, ha vissuto sempre preparandosi per il peggio, quindi la fine del mondo è solo una liberazione. Tutto questo fino a quando non scopre che Linda lo tradiva da tempo. La notizia lo sconvolge e cerca di suicidarsi, ingerendo detersivo per i vetri. A farlo andare avanti è un cagnolino, abbandonatogli al suo fianco, proprio mentre era svenuto dai postumi della drinkata di detersivo. 
Ma soprattutto è Penny (Knightley), la ragazza che abita al piano sotto al suo. Ragazza strana, romantica, vivace, e con un ipersonnia da record. Tutto il contrario di lui. Rimasti illesi dopo che una rivolta è arrivata a lambire il loro stabile, iniziano un lungo viaggio per l'America, alla ricerca di fidanzate e fidanzati passati, cercare i propri famigliari e condividere gli ultimi momenti assieme.
Not another apocalypse movie! Dai su stavolta è una commedia romantica. Siamo nel 2012 e a pochi mesi dalla fatidica fine del mondo annunciata dal calendario Maya, siamo stati sommersi da film sull'apocalisse che spazzerà via la nostra esistenza. E c'è quello d'autore, Melancolia, quello low budget, 4:44 Last Day on Earth, quello sciocco, 2012, quello con Nicolas Cage, Segnali dal futuro, ora c'è quello spiritoso. Se non dovesse arrivare sta fine del mondo, saranno stati tutti una delusione!

Seeking a friend for the end of the world (titolo originale) è un road movie camuffato ben bene da apocalypse movie. C'è una prima parte e un ultima, ovviamente, dove la fine ha una certa importanza, ma per il resto è un classico esempio del filone "viaggi e incontri". I nostri due passeranno dall'incontrare uno strano camionista a pranzare in una pittoresca tavola calda, dall'incontrare un ex dei due all'avere guai con le autorità. Il tutto però non nel classico schema buddy-buddy (tipo Un biglietto in due) ma con una coppia che piano piano si innamora.
Giudicato da questo punto di vista e dal punto di vista prettamente comico, e di ritmo, di gag, di ilarità, esce con le ossa rotte. Come se Carell, e i suoi personaggi, contaminasse tutto quello che ha attorno, la storia si srotola molto svogliatamente, molto lentamente, fiaccamente. Mai picchi degni di citazione tra gli amici a fine visione, mai scossoni o svolte nella sceneggiatura che sveglino lo spettatore. Non è che chieda la risata sguaiata, tanto ho capito dopo poco che è più romance che comedy, ma un pò di vivacità, quella si. 
Ecco allora il lato romantico. Qui si segna un successo, anche se sembra il testo di una canzone melensa messa in immagini. Guarda caso la regista, al suo esordio, è una scrittrice di canzoni per commedie romantiche adolescenziali (Whip it, Nick e Nora) oltre che attrice e cantante. In ogni caso l'amore che sboccia tra i due protagonisti è sincero e commovente al punto giusto. Poi su, stanno per morire, come tutti noi, checcarini, che dolciotti.

Però ritengo che la cosa più riuscita del film sia un altra. Ovvero quando mostra sullo sfondo a volte, e in primo piano in altre, come reagisce l'umanità al periodo d'attesa di tre settimane. C'è chi come Doug, continua a recarsi al lavoro e a eseguirlo con giudizio, chi manda avanti il proprio negozio e persino qualche poliziotto zelante c'è ancora a somministrare fumanti tazze di legalità (anvedi!). E poi c'è chi spacca tutto, chi appende volantini per coronare il suo sogno di essere un killer su commissione o chi organizza orge. C'è la famiglia di amici di Doug che organizza una classica cena con parenti e conoscenti, dove si fanno giochi di società tipo "Cosa farete se il mondo finisse?", giochi ovviamente molto realistici, come quando Penny deve realmente decidere quali dischi portare con se e quali abbandonare. Alla stessa cena si provano sigari costosissimi e petardi pericolosissimi, si organizzano coca party, si prova la cocaina, davanti ai propri figli. Eppure tutto ha una certa organizzazione. Un ora per ritrovarsi, un ordine delle portare, un ordine della serata. Anche davanti all'inevitabile fine e alla morte, c'è nell'uomo una volonta di rispettare delle regole. Di non andare oltre, di continuare a tagliare il prato, perchè si deve fare. Questo mi è piaciuto molto. Nonostante siamo liberi di lasciarci andare alla lista del "cose da fare prima di morire", preferiamo sottostare alla routine classica.

In definitiva, Cercasi amore per la fine del mondo, è un film che finisce accalappiare molti per il tema stra abusato, ma che stringi stringi non è molto diverso da tanti suoi simili. Incapace di andare un pò oltre le righe, e il soggetto lo richiederebbe eccome, rimane troppo garbato, troppo mogio e si perde lo spettatore per strada. Meglio così che la solita sboccata commediaccia di esagerazioni, ma esagera nell'opposto. Keira Knightley prova a essere divertente ma nel film sbagliato, Carell fa il suo solito personaggio in cui manco più lui ci crede. Se mai uscirà, non vi dico di non vederlo, ma il noleggio è più consigliato.

venerdì 19 ottobre 2012

Killer Joe di William Friedkin

Nelle sale dall'11 ottobre

Dopo una pausa di sei anni dall'ultimo film, il regista di colonne portanti del cinema americano come L'esorcista, Il braccio violento della legge e Vivere o morire a Los Angeles torna dietro la macchina da presa alla bellezza di 77 anni per dirigere l'adattamento di una pièce teatrale di Tracy Letts, che interviene direttamente nelle vesti di sceneggiatrice come era già successo per Bugs.
Gli Smith sono una famiglia modello del torrido Texas, Chris (Emile Hirsch), il figlio più grande, dopo essersi rovinato con un allevamento di conigli è diventato un piccolo spacciatore di droga e vive ancora con una madre che detesta. Il padre Ansel (Thomas Haden Church) si è risposato con Sharla (Gina Gershon) che però lo tradisce con un altro uomo, con loro vive Dottie (la junonica Juno Temple) la sorella più piccola di Chris, una ragazzina terribilmente ingenua e tontolona che soffre di una strana forma di sonnambulismo. A smuovere queste acque stagnanti e puzzolenti è proprio la madre di Chris, che un giorno decide di vendere tutta la droga del figlio per dare una restauratina alla sua vecchia auto. Chris rimane quindi in balia degli strozzini, ma qualcuno gli da un'idea, assumere un killer professionista per eliminare la madre e intascare i soldi dell'assicurazione sulla vita. Così, d'accordo con il resto della famiglia, assume il glaciale “Killer” Joe Cooper (Matthew McConaughey), che accetta il lavoro ad una sola condizione, finché gli Smith non potranno permettersi di pagarlo lui terrà con se la giovane e innocente Dottie, e gli Smith accettano...
Dopo aver bazzicato per anni il genere poliziesco Friedkin decide di analizzare l'altra faccia della medaglia con un incursione molto personale nel noir (qualcuno ha giustamente pensato a Double Indemnity) e soprattutto nel pulp, e in effetti la struttura di Killer Joe da questo punto di vista non potrebbe essere più classica, c'è il malloppo, l'assicurazione, l'intrigo familiare e il killer spietato che si lascia sedurre da una femme fatale piuttosto anomala. Quello che c'è di nuovo, o perlomeno di diverso, è la forma e il modo con cui questa storia classica viene raccontata, prima di tutto nei personaggi, un disgustoso quanto delizioso concentrato di tutte le peggiori qualità che i protagonisti di un racconto noir contemporaneo potrebbero avere, un inno al patetismo e alla mediocrità. Ed è appunto disgusto quello che si arriva a provare nei confronti degli Smith, che fin dalla prima scena in cui compaiono tutti insieme non fanno altro che imprecare, minacciare, insultare e pugnalare alle spalle. Chris tanto per cominciare, che si indebita nel più idiota dei modi e poi non si fa scrupoli a vendersi la sorella per far assassinare la madre. Subito dopo viene il padre, l'incarnazione del patetico, un manichino impassibile che accetta di buon grado ogni forma di prepotenza.
Nemmeno la purissima Dottie sembra salvarsi, forse perché pura in realtà non lo è stata mai, o forse perché è proprio l'incontro con Joe a corromperla definitivamente dopo che aveva resistito tanto a lungo in un nucleo familiare così profondamente nocivo. Paradossalmente invece è proprio Killer Joe a uscirne meglio, certo svolge un lavoro deprecabile e ha un rapporto poco sano con la sessualità, ma al contrario degli altri è dotato di una sua morale e di un personalissimo concetto di giustizia, persino il suo morboso rapporto con Dottie può essere letto come il desiderio di normalità e purezza, il tentativo di creare un nucleo familiare “sano”.
E la forza di Killer Joe sta proprio qui, nel riversarci in faccia tutto questo lerciume in una prima parte che procede senza troppi scossoni come nel più classico dei thriller, nell'accumulare tensioni che finalmente esplodono nel più grottesco e imprevedibile dei modi, soprattutto grazie ad una sceneggiatura fantastica che improvvisamente rompe la routine e la staticità che si erano create, sorprendendoci esattamente come accade a Chris, che rimane a bocca aperta davanti a un bagagliaio aperto su una realtà che fino a quel momento sembrava più distante e irreale che mai. E poi c'è quel finale, quegli ultimi minuti di delirio totale dove tutto quello che abbiamo visto fino a quel momento viene ulteriormente esasperato (chissà se sghignazzerete come me quando capirete il perché di quella locandina...), in un tutti contro tutti dove ognuno dei personaggi riesce veramente a tirare fuori il peggio di se. Una sequenza tragicomica che passa dal disturbante all'esilarante nel giro di poche inquadrature, e mi ha lasciato così, senza parole e con una bella risata un po' colpevole, come non mi capitava da un sacco di tempo.
Matthew McConaughey è pazzesco, leggendo le ottime recensioni post Mostra del Cinema di Venezia temevo che i vari critici e spettatori si fossero fatti prendere dall'entusiasmo, come capita spesso quando un attore generalmente poco apprezzato esce dal suo solito ruolo e si lancia in qualcosa di più impegnativo, invece le lodi sono tutte meritate, anche solo per il fantastico accento da texano e quello “sguardo che fa male”, dovrebbero fargli fare solo questo. Altrettanto grandioso il resto del cast, anche se a spiccare sono senza dubbio lo spassosissimo Thomas Haden Church e la provocante Juno Temple (non avrei mai pensato che un'attrice inglese potesse tirare fuori un accento del sud così naturale).
Un peccato e una vergogna che un film di questa portata sia arrivato solo in una manciata di sale.

lunedì 15 ottobre 2012

Il bianco e il nero #18: New York al cinema.

Capitolo primo. "Adorava New York. La idolatrava smisuratamente..." No, è meglio "la mitizzava smisuratamente", ecco. "Per lui, in qualunque stagione, questa era ancora una città che esisteva in bianco e nero e pulsava dei grandi motivi di George Gershwin". Manhattan, Woody Allen.

E viceversa, il cinema a New York. 
Quante storie sono state ambientate nella città che non dorme mai? Quanti dei vostri film preferiti? Quante lettere d'amore ha ricevuto questa città? Quanti grandissimi registi/attori/artisti/sceneggiatori ci sono nati? O quanti ci sono passati, ci hanno abitato per un periodo, si sono innamorati, l'hanno odiata forse? 
Io amo New York. Un amore viscerale sorto in me fin dalla tenera età. Non so da cosa o come sia nato questo rapporto, ma da che ho ricordo, io l'ho sempre avuta nel cuore. Poi è venuto il cinema, che da buon amico e consigliere me l'ha mostrata, nei suoi lati più nascosti e quelli più celebri, me l'ha fatta conoscere meglio e amare ancora di più.
Ho visitato New York più di una volta e a breve ci ritornerò (è una malattia che indebita parecchio sigh) e ogni volta ci vado armato di cartina e lista di luoghi/scene di film. Siccome altrove ha ottenuto un discreto successo questa mia lista, ho deciso di proporre anche qui un tour virtuale e in celluloide (avrei voluto fossero tutti in buon b/n ma per una volta farò un eccezione e inserirò di tutto) dei luoghi più celebri, e non, della più bella città del mondo. Vi direi di allacciarvi le cinture ma qui si cammina, altro che, qui si fanno fuori le suole delle scarpe.

D'accordo, fingiamo di essere appena arrivati, siamo al JFK, l'aeroporto di punta di New York (si niente La Guardia e per carità niente Newark (New Jersey) odiato persino dall'appena citato ex sindaco). Mentre aspettiamo che arrivino i bagagli diamoci uno sguardo attorno. Molto probabilmente direte "Ah! Ma qui è dove hanno girato The Terminal!". No, mi dispiace darvi la prima delusione. Gli esterni furono girati in Quebec e gli interni a Dallas in uno studio gigantesco dove è stato ricostruito fedelmente una parte dell'enorme aeroporto dislocato in più terminal. Nemmeno l'inizio di Mamma ho riperso l'aereo non fu girato propriamente qui. In una scena, per giunta, si vede l'Empire State Building fin troppo da vicino e considerato che è circa a 20 km di distanza, fate voi i conti.
Ah bè, bel giro, due film e entrambi girati altrove. Non preoccupatevi, se vi girate verso l'area che porta ai taxi e all'Air Train (un treno che porta alla metropolitana) calcherete i passi di Bette Midler in Affari d'oro e di Roger Moore AKA James Bond in Vivi e lascia morire (puah!).
D'accordo, meglio prendere qualche metropolitana (linea J) e arrivare in centro. Ovviamente come prima tappa è d'obbligo Times Square, se è la vostra prima volta. Lasciatevi inondare dalle mille luci dei cartelloni pubblicitari e poi concentratevi su alcune parti, non in alto, ma a livello stradale. Se guardate verso la scalinata rossa, tutta illuminata, proprio in centro, davanti troverete la statua del cappellano Francis P. Duffy. Ecco proprio qui davanti vi dovreste ricordare della scena di Piombo rovente, dove di mattina presto si vede camminare uno stanco Burt Lancaster.
Ci scommetto che avrete notato quello strano uomo nudo, svestito da cowboy che suona la chitarra e fa foto con le ragazzine e le signore tarchiate. Impossibile non pensare quindi a Un uomo da marciapiede. Proprio in questa zona, il neo arrivato cowboy texano Jon Voight, trova il suo alloggio, all'hotel Claridge, tra la Broadway e la East 44th Street, quel palazzone che rimane a destra della statua vista in precedenza.

domenica 14 ottobre 2012

Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard

A distanza di tre anni da Il Profeta, Audiard torna a raccontare una storia di violenza e sopravvivenza adattando piuttosto liberamente un racconto della raccolta Ruggine e ossa dello scrittore canadese Craig Davidson.
Alì (l'imponente Matthias Schoenaerts, già protagonista di Bullhead) è un ex-pugile professionista che nella vita non ha mai dovuto preoccuparsi di nulla, finché, dopo aver sottratto suo figlio ad una madre sciagurata, è costretto ad improvvisarsi padre. Così decide di abbandonare il gelido nord della Francia per raggiungere la calda Antibes dove vive una sorella che non vede da anni. Qui grazie al suo fisico massiccio trova una serie di lavori nella sicurezza di supermercati e discoteche e proprio durante una nottata di lavoro conosce Stephanie (Marion Cotillard) addestratrice di orche bella e indipendente, un incontro fugace e apparentemente insignificante. Il giorno dopo però Stephanie perde entrambe le gambe in un incidente sul lavoro, un trauma che la getta in una profonda depressione a cui lei reagisce isolandosi completamente nel buio del suo appartamento. Un giorno però si ricorda di Alì e lo contatta, sarà l'inizio di una relazione simbiotica che arricchirà entrambi.
Violenza e sopravvivenza appunto, quella dei terribili incontri clandestini a cui partecipa Alì per arrotondare lo stipendio, brutali e senza regole, oppure quella che colpisce inaspettatamente Stephanie devastandola nella psiche e nel fisico. O ancora, una violenza di tipo di verso, quella dei due corpi completamente nudi avvinghiati nel letto ancora tremanti, lei un corpo estremamente sensuale orribilmente mutilato, lui una massa di muscoli che vive la sessualità in modo quasi animalesco come un combattimento a mani nude. E forse sono davvero degli animali, come spiega Stephanie in lacrime quando Alì le annuncia l'ennesima conquista sessuale, due animali feriti che hanno bisogno l'uno dell'altro, lei per superare la tragedia, lui per smettere di essere più bambino del suo stesso figlio, un uomo che cerca di risolvere i propri problemi gridandogli contro o prendendoli a pugni. Una storia d'amore brutale che Audiard ci racconta senza risparmiarci quasi nulla, le bocche piene di sangue, i denti caduti sull'asfalto, le fredde protesi meccaniche, una donna senza gambe che cerca di ritrovare la propria femminilità sotto un corpo sudato e ansimante. Insomma il sapore di ruggine e ossa non è quello agrodolce di una storia d'amore classica con qualche zona d'ombra, è il sapore amaro del sangue, la storia di due corpi che devono ricordare o riscoprire la loro delicatezza, a costo di procurarsi qualche cicatrice, per questo forse un po' più di coraggio e coerenza nella conclusione non avrebbero guastato.
Ottima quindi la regia di Audiard, che pur mantenendo un certo distacco riesce a rappresentare con la giusta sensibilità l'atmosfera tesa e opprimente del limbo in cui si muovono i personaggi, senza per questo sacrificare momenti più delicati, come quando Stephanie perdona il suo “carnefice” o quando dorme completamente nuda distesa sul corpo di Alì.
Matthias Schoenaerts è poderoso, quello che conta per il suo personaggio è la presenza scenica, e lui sicuramente riempie lo schermo, uno spaventoso concentrato di rabbia, carica sessuale e muscoli che nasconde molto bene la sua gentilezza. Marion Cotillard invece si concede finalmente una pausa dai blockbuster e dai ruoli da femme fatale per interpretare una figura femminile estremamente fragile, un ruolo difficile in tutti i sensi che lei riesce a padroneggiare alla perfezione, struccata, imbruttita, mutilata (a proposito, ottimi “effetti speciali”) e messa a nudo, in tutti i sensi.
Tra i due attori/personaggi si crea una bellissima alchimia fatta di silenzi e contatti quasi esclusivamente fisici, due corpi che arrivano a sentirsi a proprio agio in tutta la loro terribile bellezza.

sabato 13 ottobre 2012

Total Recall - Atto di forza di Len Wiseman

Nelle sale dal 11 ottobre.
A chiunque sarà capitato di fantasticare, di immagine di vivere una vita non sua dove magari è un famoso sportivo o un talentuoso attore o un miliardario astronauta cowboy. Una vita dove possiamo coronare tutti i nostri sogni, possedere tutto quello che si desidera, copulare con tutto ciò che si vuole. E' per questa ragione che leggiamo libri, guardiamo film, giochiamo ai videogiochi. Vivere un esistenza diversa da quella monotona e noiosa, ma reale, di tutti i giorni. Il problema è che tutti questi prodotti o aiuti, creano dei brevi ricordi nella nostra mente. E sono pur sempre di seconda mano, noi ripercorriamo i binari di storie create da qualcuno che non siamo noi. Invece l'immaginazione o il sogno, che sono di nostra produzione, hanno una resistenza ancora più labile nella nostra memoria. 
Non sarebbe bello quindi poter usufruire di un macchinario o di un metodo per vivere delle situazioni artificiali, e positive, talmente vivide da rimanere nel nostro cervello come se le avessimo compiute per davvero? In un futuro imprecisato ma non molto lontano tutto ciò sarà possibile. Grazie all'azienda Total recall ci basterà scegliere un modello, un personaggio e uno scenario e vivremo la nostra fantasia preferita. Ed è quello che fa il buon Douglas Quaid (Colin Farrell) un operaio in un industria di robot.
Alla fine del XXI secolo una guerra chimica globale ha reso il mondo quasi totalmente invivibile. Sono rimasti solo due territori dove si raduna l'intera popolazione mondiale: la FUB (Federazione unita della Britannia) e la colonia, esattamente dal lato opposto del pianeta. Le due parti del globo sono unite tramite The fall, la caduta, un mega ascensore capace di passare attraverso il nucleo centrale della terra. La FUB è un territorio libero, ricco e prosperoso, mentre la colonia è povero, zozzo e sotto una dittatura che impone ai coloni di lavorare in Britannia. A combattere la dittatura c'è il classico esercito della resistenza.
Quaid è un colono. Vive un esistenza miserabile, come tutti i suoi simili. Vorrebbe dare una scossa alla sua quotidiana monotonia e quando va alla Recall vuole rivivere il sogno che fa ogni notte: è un agente speciale in trappola che deve salvare la sua compagna, una mora molto carina, che, oibò, non è sua moglie (Kate Backinsale). Tutti glielo sconsigliano questo viaggio di fantasia, a causa dei danni che il suo cervello potrebbe riportare, ma Quaid sceglie di provarci lo stesso. Ed è così che durante l'inizio del viaggio qualcosa va storto. Viene scambiato per un agente doppiogiochista da delle guardie armate li in zona. La sua fantasia diventa reale quindi, tutto quello che aveva desiderato diventa un incubo a occhi aperti, una fuga per la propria salvezza. Ma sarà tutto vero, e quindi lui è un agente a cui è stato fatto il lavaggio del cervello e ora per puro caso sta ricordando, oppure è solo dentro la sua immaginazione e deve solo aspettare di risvegliarsi?

Ventidue anni fa, quello sconclusionato di Paul Verhoeven, trasponeva il racconto breve di Philip K. Dick Memoria totale (o Ricordiamo per voi) con protagonista il mitico Arnold Schwarzeneggher. Quel primo Atto di forza era la poteosi della fantascienza anni 80 (anche se il film è del 1990). Il classico duro muscoloso, molto sangue, molti trucchi artigianali e quell'umorismo becero che li rendeva dei cult in tempo zero. Il grande pregio di Verohoeven fu però quello di rendere il racconto di Dick una storia piena di ambiguità e trasformare la strampalata vicenda -l'avventura spionistica dell'agente Quaid- in una storia inattaccabile da parte dei paladini della verosimiglianza, con un finale chiarificatore e che non trattasse eccessivamente lo spettatore come un imbecille, da tenere per mano e spiegare passo passo la conclusione.
Tutti questi elementi si perdono nella versione nuovo millennio. Niente più umorismo in primis, sembra quasi che non si possa scherzare più, bisogna essere seri e imperturbabili con la nuova fantascienza. E quindi niente più mondi futuristici colorati o pazzarielli, anzi, pioggia, oscurità, povertà. Impossibile vedere questo remake e non pensare a un altro romanzo di Dick, Blade Runner, di cui copia gran parte dell'ambientazione, persino il sapore asiaticheggiante.

La cosa peggiore però è che viene tolta tutta l'ambiguità e la "profondità" della storia (quindi in un certo senso è più fedele al racconto). Non siamo di fronte a un uomo, Schwarzenegger, che vive una vita seppur monotona, ma priva di cose di cui lamentarsi (una bella moglie, un buon lavoro, una bella casa. Insomma, come molti di noi) ma ritroviamo un uomo dentro a un mondo al collasso e sfruttato da una dittatura di teste d'uovo. La total recall nel primo film era uno sfizio per benestanti, in questo diventa un tentativo di evasione per i poveracci.  
Inoltre, nel tentativo di smussare le asperità e le banalità del primo film, il remake incappa in quella superbia che spegne tutta la magia di un tipico racconto di fantascienza. Tutto diventa troppo plausibile, troppo spiegato (magari per chi conosce già la storia, lo ammetto), e il film scivola velocemente in un action tutto adrenalina privo di atmosfera.
Insomma, dal produttore di tutti gli Underworld, e regista di un paio, (non a caso marito della Backinsale) e dell'ultimo Die Hard non ci si poteva aspettare altro. E' una corsa continua e praticamente priva di molta logica per tutta la durata della pellicola. Si spara, si corre, si cade, ovvio che non ci sia troppo spazio per le sfumature e per il tanto sospirato Quato (che poi, vengono tolti i mutanti, a parte la breve citazione con la donna dal triplo seno, ma potevano benissimo starci visto che siamo in un mondo colpito da una guerra chimica).
Certo, ha dalla sua una spettacolarità di grande qualità (condita da un eccessivo uso di lens flare di chiara matrice geigei-abramsiana), ma come succede sempre più spesso di questi tempi, senza sostanza. 
Il tutto però va giudicato in base al finale. Come dicevo, l'originale, ha una particolare scena che rende la sceneggiatura, eccessiva e caciarona, inattaccaile. Qui, tutta l'ambuiguità, dove e come va a finire? Prima di tutto ribaltando la situazione, da "mondo di Marte" possibile finzione, a "mondo della colonia" possibile finzione, se ne perde molta di ambiguità e quindi la conclusione, un pò à la Inception?, perde di forza o di interesse. Non ci sono troppe domande, non ci sono troppi dubbi, può benissimo essere un caso o un altro, senza per forza negare uno dei due. 

In definitiva, come era ampiamente prevedibile, il remake non supera l'originale. Da buonissimo film di fantascienza ci ritroviamo un action troppo lungo (quasi due ore), troppo frenetico e vuoto, molto più simile a un nuovo capitolo di Underworld che al cult di Veroheven. Non c'è spazio per la signora grassa allla dogana, non c'è Quato, non c'è abbastanza spazio per la donna tripettoruta. La CGI ha ucciso l'umorismo e le nuove tecnologie le sceneggiature. E dire che era piuttosto difficile sfigurare contro un film con Schwarzenegger che picchia tutti. Sono tutte scelte, per carità, condivisibili o no, ma segnano anche i gusti di un pubblico più attento al trucco in se che alla storia e all'imbonitore che c'è dietro.

Del finale se ne può discutere nei commenti.

venerdì 12 ottobre 2012

Filmbuster(d)s - Episodio #14

Siamo sempre qui, anche quando pensate che non sia così, Filmbuster(d)s va avanti, con un episodio che arriva un po' in ritardo per problemi logistici, ma con tanta carne al fuoco. Quattro film quattro, ancora nelle sale, alcuni consigliati, uno NO, categoricamente NO: curiosi di sapere quale sia? Ascoltate l'episodio 14 del podcast. 



[00:03:50]I bambini di Cold Rock
[00:14:50]Resident Evil Retribution
[00:27:45]Magic Mike
[00:43:45]Reality







Potete ascoltare l'episodio al link diretto al file MP3 (per scaricarlo basta cliccare col destro e poi "Salva link con nome"): Clicca qui

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lunedì 8 ottobre 2012

Il bianco e il nero #17: B.B. vs C.C.

"L'italiana contro la francese, la mora contro la bionda, la pantera contro la bambola".

Mentre una cresceva a Tunisi nel pieno rigore di una famiglia italiana del meridione, l'altra era già una stellina del cinema francese e dettava la moda, seguita seguita rigidamente dalla prima. Mentre una debuttava nel cinema italiano, l'altra divorziava dal suo primo marito, il regista Roger Vadim che l'aveva trasformata nell'icona sexy del secolo. Mentre una girava  8½ e Il Gattopardo l'altra rispondeva con Il Disprezzo. Eppure non si era mai in(s)contrate.
Sempre paragonate, sempre messe in competizione ("BB viene prima di CC!" titolavano i francesi), rappresentavano non solo due nazioni, da sempre in competizione, -e a ben vedere Claudia era più francese che italiana- ma anche i due cinema europei più forti di quel periodo. Erano la versione europea del dilemma Jacqueline-Marilyn.
Un duello era necessario, tutto il pubblico lo bramava, ma dovette aspettarlo per molto, fino al 1971.

Un match per il quale si erano già fatti avanti i bookmakers. Quattro produttori, francese, spagnolo, italiano, inglese, si erano associati per un progetto da 10 milioni di franchi. Nonostante una sceneggiatura un pò debole -'na schifezza, a essere sinceri- Le pistolere prometteva di essere l'evento dell'anno.
La storia è quella di due bande rivali, i King e i Sarazin, guidate da due donne, che si sarebbero infine affrontate, con la pistola in mano, in un vecchio villaggio del Far West fondato da francesi(!). Brigitte sarebbe stata Louise King, la figlia del banditoFrenchie King, specializzato in assalti ai treni. Con le sue quattro sorelle, ruba una sacca nella quale si trova la mappa di un giacimento petrolifero promettente. Claudia invece è a capo della sua banda composta dai suoi fratelli (si, chiaramente i numeri delle sorelle pareggia quello die fratelli). Dopo lo spaghetti western, era arrivato il western fru-fru.

Si era pensato a tutto perchè la tensione raggiungesse il culmine mentre i due "pugili" si incontrano sul ring. I fotografi aspettavano il momento dell'esplosione delle due bombe, si aspettavano quanto meno che si strappassero i capelli, entrambe portavano chiome lunghissime.
Dopo la morte di Marilyn, Brigitte era diventata una sex symbol a livello planetario. Sulle sue spalle poggiava il saldo positivo dell'intera annata produttiva francese. Non era solo un'attrice, una donna, ma la bandiera di un un paese che voleva mantenere il suo legame con la storia e nello stesso tempo dimostrare la sua giovinezza. Non è un caso quindi che venne ricevuta addirittura all'Eliseo, in un'epoca in cui era l'incarnazione della più sfrenata libertà e della dissolutezza.
Claudia (la approfondisco dopo) era la brava ragazza, casa e famiglia. In realtà un maschiaccio, pronta a rotolarsi coi suoi fratelli frutto del suo retaggio nordafricano ben radicato nel dna. Tutto il contrario della bambolina di porcellana francese, era il volto del cinema italiano, la preferita dell'impossiible Visconti, la musa di Fellini, la moglie del potentissimo Cristaldi.
Il primo giorno di riprese infine arrivò. Il duellante Cardinale, fedele alla sua fama, era già presente sul set, qualche minuto prima dell'orario di inizio. Sempre professionale, era la gioia dei registi. Anche qui, Bardot era tutto il contrario, mai puntuale, a volte, assente. Non c'era verso che si riuscisse a svegliarsi in tempo. Mentre la sua sfidante, ligia al dovere, in periodo di riprese, andava sempre a letto presto, lei faceva sempre baldoria fino alle ore piccole. Ma tutto ciò le era consentito, era una diva con la D capitale e ormai il cinema le andava strettino.

giovedì 4 ottobre 2012

Ted di Seth MacFarlane

Nelle sale dal 3 ottobre.
Va bene lo ammetto, partivo con le peggiore aspettative. D'altronde MacFarlane negli ultimi anni ci ha abituati malissimo. I Griffin, la sua prima creatura, è stata distrutta dopo appena due massimo tre stagioni, seguendo la terribile china presa da I Simpson, ma addirittura in un terzo del tempo. Privo di idee e pieno di spocchia -mette in bocca ai suoi personaggi le peggiori prese in giro e i peggiori insulti possibili verso chiunque, vivente o no, e dopo l'ennesima mitragliata senza un obbiettivo preciso e una puntata priva di contenuto, viene automatico un "ma da che pulpito"-, incapace di dare una struttura a un episodio di soli 20 minuti -e a tal proposito andrebbe recuperata la puntata di South Park dove spiegano che sono i lamantini a scrivere le puntate de I Griffin-, si è messo a fare altre due serie che ondeggiano tra l'inutile e lo scialbo, American Dad e Cleveland Show. Per lo meno però il vuoto totale nelle trame delle ultime stagioni de I Griffin veniva colmato da storie banalotte e noiosette, niente più continui flashback, niente più insulti random. Insomma, un leggero passo in avanti ma privo di divertimento.
Con queste premesse è uscita la notizia prima il  trailer poi del suo al cinema con un lungometraggio live action. Un trailer zeppo di volgarità, battute infantili e Mark Wahlberg. La peggiore cosa possibile che ci si potesse augurare. In più c'era sempre in agguato lo spauracchio di un film capace di sfilacciarsi dopo soli 15 minuti per poi iniziare a rotolare anzi a deambulare verso l'inevitabile e agognata fine.

Non è così, ma non c'è comunque da gioire. E' evidente che alla Fox avesse molta libertà e dopo i primi notevoli successi gliene fosse stata concessa ancora di più, tanto da portarlo a non avere più restrizioni e persone che lo fermassero o lo consigliassero. Invece per Ted, produttori attenti o semplice paura di non esagerare troppo, di partire con qualcosa di soft, ritroviamo un MacFarlane giudizioso.
La storia non avrebbe nulla di originale se non ci fosse quell'orsacchiottone parlante quale è Ted -un classico elemento macfarliano l'animale/alieno parlante, e sinceramente ha stufato- perchè di una coppia di amici svitati, in cui uno è la mela marcia che trascina sempre l'altro, quello più o meno a posto, con un lavoro, una fidanzata, nei guai, fino a toccare il fondo e quindi perdere tutto quello che ha, ne abbiamo già viste e sentite di tutti i tipi (e mai così memorabili, vero Dupree?). Altri clichè piovono nella sottotrama, il boss della fidanzata che ci prova, una carriera senza sbocchi, elementi criminali che minano la sicurezza della mela marcia, tutto già visto. Hey, però c'è l'orso!
Già dal trailer sopracitato pareva essere il classico personaggio sboccato, cattivo, violento, fumato, alcolizzato etc.. ed è così ma per una volta, in quei pochi minuti promozionali viene inserito tutto il peggio del film e non il meglio. Ecco, non fatevi traviare troppo, Ted, è triviale e immorale, ma non è quell'accumulo di stronzate che ci si potrebbe aspettare. C'è qualcosina di più.
Qualche risata la strappa, complice la presenza graditissima di Sam Jones AKA Flash "fucking" Gordon a una festa a base di cocaina, o qualche citazione -non troppe, stranamente- come quella deliziosa dei due amici che prendono in giro l'aspetto dei pesci nell'acquario mentre sono seduti su una panchina (Io e Annie) o autocitazioni, un Ted strafatto doppiato da MacFarlane stesso che si meraviglia di assomigliare a Peter Griffin, o ancora la meravigliosa performance canora di Mark Wahlberg.
Dopotutto, ricalcando dei binari già percorsi mille volte, MacFarlane riesce a tenere il treno in carreggiata e evitare che ogni vagone vada per sè. In questo modo perde un pò della sua verve e di ritmo, portando a una seconda parte un pò più debole e smorta della prima. Sempre meglio di raffiche su raffiche di gag, per quanto divertenti ma fine a se stesse. Quindi MacFarlane finisce in una posizione molto scomoda, non solo per questo film ma per il suo modo di esprimersi: o si auto tarpa le ali e diventa moscio o si scatena e diventa insostenibile e evitabile. Ancora una volta i suoi tanti limiti affiorano tutti.
Limiti che forse sono ancora più evidenti in un lungometraggio, come le varie parodie dei capitoli di Star Wars. Divertenti, per i fans, ma tremendamente fiacchi, incapaci di stare al passo di una durata totale maggiore del semplice episodio televisivo.
Due parole finali sul cast. Wahlberg dopotutto mi sta simpatico e in veste comica ha il suo dire, benchè rimanga impassibile per tutto il film. La sua performance canora e la sua abilità nei pugni sono i momenti più riusciti della pellicola. Mila Kunis è un bell'oggetto di scena ed è una aficionada del regista (lei è la voce di Meg). Infine c'è un Ribisi pericoloso e danzerino (sempre antagonista di Wahlberg come in Contraband), Joel McHale, conosciuto per Community, qui nel ruolo del boss stronzetto e marpione e soprattutto c'è Sam Jones, fenomenale.

In definitiva Ted è una discreta commedia, capace di intrattenere, già vista tante volte, ma vi sfido a trovarne una davvero originale, che riesce a sorprendere lo spettatore più scettico verso MacFarlane e però, altra faccia della medaglia, probabilmente scontenterà chi cercava qualcosa di più eccessivo e corrosivo, magari quindi proprio il fan attirato dal cartellone "Dall'autore de I Griffin". Se vi basta un orso di pelouche che si fuma un bong o che fa fare la cacca a una prostituta sul pavimento, allora sarete accontentati, se cercate qualcosa di più, magari aspettatelo a noleggio o su Sky Cinema.

lunedì 1 ottobre 2012

Il bianco e il nero #16: Tutto quello che avreste voluto sapere su Psycho ma non avete mai osato chiedere

"Il film che dovete vedere dall'inizio...o non vederlo affatto!" Una pubblicità dell'epoca.

Perchè proprio Psycho? Perchè era in bianco e nero? Perchè non ci sono veri divi? Perchè proprio quel romanzaccio di serie B? Perchè un giallo così macabro? E poi, come fu accolto? Cosa successe sul set? Chi vi collaborò? Cosa disse la censura? E i produttori? Come venne realizzata la famosa scena della doccia? E quella di Arbogast? E la musica? E i titoli di testa?
Calma calma, ogni singola domanda otterrà risposta saziando le vostre richieste più bizzarre.
Prima di iniziare, vorrei sottolineare l'ovvio, ovvero, parlerò di tutto il film, finale, straconosciuto, stracelebre, compreso. Siete avvertiti voi tre che non sapete chi è realmente la signora Bates.

*Hitchcock e gli anni 60.
Nell'estate del 1959 sir Alfred Hitchcock aveva il mondo ai suoi piedi. Ogni suo film era un evento, l'incasso medio era pari al PIL di una nazione sudamericana. Era da poco uscito Intrigo Internazionale e tutto il pubblico americano ancora era in visibilio. Aveva un tale potere alla Paramount ("il suo teatro di posa personale" qualcuno lo chiamava) da avere carta bianca per la scelta di storie, sceneggiatori, attori, troupe, montaggio e pubblicità, basta che il progetto non superasse i 3 milioni di budget. Ma il più famoso e talentuoso regista al mondo, dopo decine di film meravigliosi e scene consegnate alla storia, all'alba dei 59 anni si ritrovava costretto in un angolo dalla sua stessa fama, passata e presente. La paura principale era quella di ripetersi o scadere nel già visto o ancora peggio, essere superato dai nuovi emuli (Siodmak, Castle, Preminger, Cukor, tutti avevano fatto un film à la Hitchcock) o diventare prevedibile. Perciò durante tutta la sua carriera le aveva provate tutte; confinare l'azione in un microcosmo (Nodo alla gola, La finestra sul cortile, I prigionieri dell'oceano) o spalmarla su, addirittura, monumenti nazionali (Intrigo Internazionali, Sabotatori, L'uomo che sapeva troppo), commedie, drammi, rivisitato epoche passate (Il peccato di Lady Considine), arrivando persino al semidocumentario (Il ladro) e a sperimentare nuove teconologie (il 3D in Delitto perfetto). Hitchcock scherzava sulla sua fama "Se dicessi di voler fare Cenerentola, il pubblico si aspetterebbe un cadavere nella carrozza". Quindi che fare?

Per il nuovo film si cercava materiale dappertutto, a teatro, nei fumetti, nei romanzi, nelle storie brevi, ma era un impresa. Poi di colpo, saltò fuori il libro Psycho di Robert Bloch. Lo scrittore nato nel Wisconsin aveva creato questa storia dell'orrore ispirandosi ai fatti realmente accaduti legati alla figura di Ed Gein, il macellaio di Plainfield, un pazzo che assassinava le donne guidato dalla voce, nella sua testa, della madre morta, ma imbalsamata al piano di sopra. Non era un successone, ma di certo qualcuno l'aveva notato. Fra questi Peggy Robertson, moglie di Douglas, montatore personale di Hitch e glielo propose. Alfred si fidava del suo giudizio e decise di acquistarlo (dopo tutto, i diritti, vennero via per soli 5000 dollari, una miseria).
Ma perchè proprio Psycho? Innanzitutto era qualcosa che nessuno si aspettava. Chiunque sottolineava che non era materiale da Hitchcock. Troppo macabro, eccessivo, con addirittura un finale tipico di un giallo a sorpresa che lui detestava e evitava. E allora la prese come una sfida. Tanto, il romanzo l'avrebbe rigirato come gli pareva a lui, andando a ritoccare quello che non gli interessava e invece cavalcando quello che lo incuriosiva (il lato psicologico, il complesso di Edipo, il travestitismo, le scene più forti, la necrofilia). Secondariamente perchè doveva per contratto fare un film con al Universal e Psycho era il giusto progettino da rifilargli. Terzo, perchè pochi anni prima aveva visto I diabolici di H. G. Clouzot (tratto da un romanzo di Boileau e Narcejac, autori anche di D'entre les morts, da cui era nato La donna che visse due volte, un flop imprevedibile purtroppo) e voleva fare una cosa simile. E quarto, ma non ultimo, essere finalmente libero e non ostaggio delle star. Fare un film piccolo, in cui non fosse necessaria nessuna Grace Kelly o James Stewart.

Pyscho non convinceva nessuno. "Trarne un film è impossibile" sentenziò un produttore, e tutti gli altri erano concordi. Hitchcock tuttavia era più che convinto. Aveva il suo Diabolici, sapeva perfettamente che gli slasher e horror  (tutti film della Hammer, Universal, Allied Artist)  costavano poco e richiamavano al cinema migliaia di persone e poi voleva cimentarsi con un genere che di solito non apparteneva agli autori, ai grandi registi (ci provarono Hawks, La cosa da un altro pianeta, e altri). Ma alla Paramount erano contrari. Le ultime volte che aveva tentato qualcosa di diverso -Il ladro, La donna che visse due volte e La congiura degli innocenti- si rivelarono dei fiaschi. Questa roba con necrofilia e travestiti era pessima e non aveva nessuna classe (al contrario di La donna che...) e gliela bocciarono. Una rarità, lui che veniva sempre accontentato (solo Selznick gli disse no e da li in poi i rapporti si ruppero).
Hitchcock con la sua classica flemma si congedò dicendo "Benissimo, mi arrangerò da solo" il che avrebbe significato niente technicolor, niente stelle, pochi denari e tutti di tasca propria. Hitchcock era animato da una vendetta ora, verso chi non credeva in lui.